Whistleblowing, pubblicato il d.lgs. 24 del 16.3.2023

È stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il d.lgs. n. 24 del 10 marzo 2023 che entrerà in vigore il 15 luglio 2023 (è prevista una proroga al 17 dicembre 2023 per i datori di lavoro privati che nell’ultimo anno abbiamo impiegato una media di 249 lavoratori subordinati, a tempo determinato o indeterminato).

La normativa è applicabile a tutti i soggetti, pubblici e privati, indipendentemente dall’adozione di un modello organizzativo ex d.lgs 231/2001 per la prevenzione di reati in azienda.

I canali di segnalazione possono essere tre, interno, esterno e pubblico, ma negli enti privati con meno di cinquanta dipendenti è prevista la sola possibilità della segnalazione interna. Dunque, dovranno obbligatoriamente attivare il canale di segnalazione interno i soggetti privati che:

  • abbiano impiegato in media nell’ultimo anno almeno 50 lavoratori subordinati con contratti di lavoro a tempo indeterminato o determinato;
  • rientrino nell’ambito di applicazione delle norme in materia di servizi, prodotti e mercati finanziari e prevenzione del riciclaggio o del finanziamento del terrorismo, sicurezza dei trasporti e tutela dell’ambiente, anche se nell’ultimo anno non hanno raggiunto la media di 50 lavoratori subordinati;
  • abbiano adottato modelli di organizzazione e gestione ex D.lgs. 231/2001, anche se nell’ultimo anno non hanno raggiunto la media di 50 lavoratori subordinati.

Le segnalazioni potranno essere effettuate con quattro modalità:

  • In forma scritta;
  • In forma orale, con un incontro di persona con personale addetto;
  • Tramite linee telefoniche o altri sistemi di messaggistica vocale registrati o non registrati (in questo ultimo caso le conversazioni dovranno essere trascritte e firmate);
  • Attraverso la piattaforma informatica messa a disposizione da Anac (Autorità Nazionale Anti Corruzione) per la segnalazione esterna;

Tutti coloro che effettuano segnalazioni di violazioni del diritto dell’Unione da parte dell’ente di appartenenza, nell’ambito della propria attività, che siano dipendenti o collaboratori, lavoratori autonomi o subordinati, liberi professionisti, volontari, tirocinanti (anche non retribuiti), gli azionisti, gli amministratori, direttori e coloro che operano con funzioni di vigilanza, controllo e rappresentanza, hanno diritto alle tutele previste dal decreto.

Ai sensi dell’art. 17 del decreto, infatti, nessuno può subire, per il fatto di aver segnalato un illecito, ritorsioni di alcun tipo, tra cui:

  • licenziamento, sospensione;
  • retrocessione di grado o mancata promozione;
  • mutamento di funzioni, cambiamento del luogo di lavoro, riduzione dello stipendio, modifica dell’orario di lavoro;
  • sospensione della formazione;
  • note di merito negative;
  • adozione di misure disciplinari o di altra sanzione anche pecuniaria;
  • coercizione, intimidazione, molestie o ostracismo;
  • discriminazione o comunque trattamento sfavorevole;
  • mancata conversione di un contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, laddove il lavoratore avesse una legittima aspettativa a detta conversione;
  • mancato rinnovo o risoluzione anticipata di un contratto di lavoro a termine;
  • danni, anche alla reputazione della persona, in particolare sui social media, o pregiudizi economici o finanziari, comprese la perdita di opportunità economiche e la perdita di redditi;
  • annullamento di una licenza o di un permesso;
  • richiesta di sottoposizione ad accertamenti psichiatrici o medici.

La protezione dei whistleblowers prevede tra l’altro il divieto di rivelarne l’identità senza il suo consenso a persone diverse da quelle competenti a ricevere o a dare seguito alle segnalazioni ed anche nell’ambito di procedimenti disciplinari a carico del segnalato.

Se il segnalatore subisce una ritorsione o in altri casi di violazione della normativa, l’Anac potrà applicare sanzioni amministrative pecuniarie da 10.000,00 a 50.000,00 euro; si applicherà la sanzione anche nei casi in cui venga accertato che una segnalazione è stata ostacolata o che si è tentato di ostacolarla o che è stato violato l’obbligo di riservatezza, oppure se l’Autorità accerti che non sono stati istituiti canali di segnalazione e che non sono state adottate procedure per l’effettuazione e la gestione delle segnalazioni. Infine, qualora si accerti la responsabilità del segnalante per i reati di diffamazione e calunnia, è prevista la sanzione da 500,00 a 2.500,00 euro.

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Calunnia verso i colleghi: legittimo il licenziamento senza preavviso

Calunnia di Botticelli licenziamentoLa S.C. di Cassazione, sezione lavoro, con ordinanza 7225 del 13.3.2023 si è pronunciata in una fattispecie relativa a un dipendente di Polizia Locale nei confronti del quale era stata irrogata la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio per sei giorni, in ragione della violazione dell’art. 3, co. 4 lett. b) e comma 5 lett. b), g) ed i) del CCNL Comparto Regioni ed Autonomie Locali, per avere lo stesso denigrato il Comandante del Corpo, attribuendogli un comportamento scorretto ed irrispettoso ed il Corpo stesso, esprimendo su di esso un giudizio negativo e tale da far desumere lo svolgimento al suo/interno di attività illecite, oltre che per avere gravemente diffamato un collega, attribuendogli comportamenti sessualmente molesti ed osceni ed avere tenuto un comportamento scorretto nei riguardi di altro superiore.

La S.C. ha sancito la legittimità del licenziamento senza preavviso adottato dalla pubblica amministrazione.

Sussistono secondo la Corte, in una condotta come quella sopra descritta, tutti gli elementi di fatto della fattispecie di cui all’articolo 55 quater lettera e) del decreto legislativo: risultano reiterate le condotte che ledono la dignità personale altrui, laddove la calunnia nei confronti del comandante e dei colleghi risulta accertata in sede penale con sentenza passata in giudicato.

Ad avviso della Suprema Corte si tratta di condotte gravi in quanto la denigrazione colpisce il Corpo di polizia, dunque l’istituzione di appartenenza.

Non assume rilievo la circostanza che la querela rivelatasi calunniosa, sia un atto esterno all’ambiente di lavoro: è invece sufficiente che l’atto illecito abbia conseguenze dirette all’interno della sfera anche se non risulta commesso nel luogo dove si svolge il servizio.

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Utilizzo indebito di carta di credito altrui: non occorre il profitto

carta di credito utilizzo indebitoL’art. 493-ter c.p. che punisce il reato di “Indebito utilizzo e falsificazione di strumenti di pagamento diversi dai contanti”, stabilisce che “Chiunque al fine di trarne profitto per sé o per altri, indebitamente utilizza, non essendone titolare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, o comunque ogni altro strumento di pagamento diverso dai contanti è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 310 euro a 1.550 euro. Alla stessa pena soggiace chi, al fine di trarne profitto per sé o per altri, falsifica o altera gli strumenti o i documenti di cui al primo periodo, ovvero possiede, cede o acquisisce tali strumenti o documenti di provenienza illecita o comunque falsificati o alterati, nonché ordini di pagamento prodotti con essi”.

La recente sentenza 4342/2023 del 1.2.2023 della Sezione V penale della S.C. di Cassazione sottolinea come tale reato venga punito a prescindere dal conseguimento di un profitto e di un altrui danno, essendo sufficiente, ai fini della configurabilità del reato, il fine di profitto e non il suo effettivo conseguimento.

Secondo la Corte che, deve ritenersi escluso che l’assenza di profitto elida il delitto previsto dall’art. 493-ter c.p.

L’indebita utilizzazione, a fini di profitto, di una carta di credito da parte di chi non ne sia titolare, integra il delitto di cui si discute indipendentemente dall’effettivo conseguimento di un profitto o dal verificarsi di un danno, non essendo richiesto dalla norma che la transazione giunga a buon fine (Sez. 5, n. 5692 del 11/12/2018, dep. 2019, S., Rv. 275109 – 01: fattispecie nella quale l’imputato aveva introdotto la carta di credito di provenienza illecita nello sportello bancomat, senza digitare il PIN di cui non era a conoscenza) o che intervenga il prelievo di denaro (Sez. 5, n. 17923 del 12/01/2018, Pasquale, Rv. 273033 – 01) o che la carta sia stata bloccata (Sez. 2, n. 45901 del 15/11/2012, Tracogna, Rv. 254358 – 01; massime conformi: n. 16572 del 2006 rv. 234460 – 01, n. 37016 del 2011 rv. 251155 – 01).

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Ritenute non versate, per il reato serve la certificazione

modello770Per il reato di omesso versamento della ritenute occorre dimostrare l’avvenuta certificazione, non essendo sufficiente solo il modello 770.

L’art. 10bis del d.lgs 74/2000, introdotto con la legge finanziaria 30.12.2004 n. 311 dal titolo «omesso versamento di ritenute certificate», sanzionava l’omesso versamento, unicamente ove riguardante «ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti», per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo di imposta.

Tale norma è stata modificata dal governo, sulla base di legge delega, con l’art. 7 del d. Igs. 24 settembre 2015 n. 158, venendo per effetto di tale riforma punito «chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a centocinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta».

A parte l’innalzamento della soglia della rilevanza penale, l’elemento differenziale nelle due versioni della norma consisteva nel fatto che, mentre in quella ante 2015 si faceva riferimento alle sole «ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti» (quindi il CUD o CU), dal 2015 la norma opera anche, ed alternativamente, il riferimento alle «ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione» (cioè quella annuale del sostituto, e, quindi, il mod. 770).

La revisione della norma risultava ben evidenziata nella integrazione della rubrica dell’articolo (passata da «omesso versamento di ritenute certificate» a «omesso versamento di ritenute dovute o certificate») e nella apposizione, accanto al periodo «risultanti dalla certificazione rilasciata», del periodo «dovute sulla base della stessa dichiarazione».

L’oggetto materiale della condotta omissiva sanzionata, dapprima limitata alle sole ritenute che risultavano dalla certificazione, è stata quindi estesa alle ritenute emergenti dalla dichiarazione modello 770, per cui, alla luce di tale modifica, si è posto nella giurisprudenza di legittimità il quesito sulla sufficienza, per i soli fatti precedenti alla novella del 2015, della dichiarazione modello 770 del sostituto a dimostrare l’avvenuto rilascio ai sostituiti delle certificazioni, ciò a fronte della necessità di considerare tale rilascio, se non quale elemento costitutivo del reato, quanto meno di suo presupposto.

Nel 2018 le Sezioni Unite con sentenza 24782/2018 (scarica qui) hanno stabilito con riferimento alla normativa previgente alla modifica intervenuta nell’anno 2015, deve essere esclusa la idoneità del solo modello 770 (di dichiarazione delle erogazioni effettuate e delle ritenute operate), a provare l’elemento, da considerare presupposto del reato, del rilascio delle certificazioni, ciò in base al rilievo secondo cui le indicazioni contenute nel modello 770 non sono da sole idonee a provare il fatto del rilascio delle certificazioni, essendo un mero indizio che, non può superare il criterio dell’accertamento al di là di ogni ragionevole dubbio cristallizzato dall’art. 533 cod. proc. pen., gravando dunque sul pubblico ministero l’onere di ricercare, al fine del raggiungimento della prova richiesta ai fini della configurabilità della fattispecie, elementi ulteriori e diversi (orali, come ad esempio le dichiarazioni dei sostituiti, o documentali) rispetto alla sola dichiarazione modello 770.

La sentenza della Corte Costituzionale 175/2022 (scarica qui) ha poi dichiarato incostituzionale, sul presupposto dell’eccesso di delega, sia dell’art. 7, comma 1, lettera b) del decreto legislativo n. 158 del 2015 (“Revisione del sistema sanzionatorio in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014 n. 23”), nella parte in cui ha inserito le parole “dovute sulla base della stessa dichiarazione o” nel testo dell’art. 10 bis del decreto legislativo 10 marzo 2000 n. 74, sia dello stesso art. 10 bis del d. Igs. n. 74 del 2000, limitatamente alle parole “dovute sulla base della stessa dichiarazione o”.

In sostanza, secondo la Consulta, il legislatore delegato del 2015 ha introdotto illegittimamente nell’art. 10 bis una nuova fattispecie penale (omesso versamento di ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione del sostituto), affiancandola a quella già esistente (omesso versamento di ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti), senza essere in ciò autorizzato a farlo dalla legge di delega, mentre sarebbe stato necessario un criterio preciso e definito per poter essere rispettoso anche del principio di stretta legalità in materia penale.

Di qui la declaratoria di incostituzionalità nei termini descritti, che ha sostanzialmente “sterilizzato” la modifica della norma incriminatrice introdotta con il d. Igs. n. 158 del 2015 che, oltre a innalzare la soglia di punibilità da euro 50.000 a euro 150.000, aveva previsto la possibilità di ricavare la prova dell’avvenuta consumazione del reato anche sulla base di quanto risultasse dalla mera dichiarazione del sostituto d’imposta (c.d. modello 770), per cui ora l’integrazione della fattispecie penale ex art. 10 bis richiede che il mancato versamento da parte del sostituto, per un importo superiore alla soglia di punibilità, riguardi le ritenute certificate, mentre il mancato versamento delle ritenute risultanti dalla dichiarazione, ma di cui non c’è prova del rilascio delle relative certificazioni ai sostituiti, costituisce illecito amministrativo tributario.

Tornano quindi attuali, non più solo per i fatti pregressi al d. Igs. n. 158 del 2015, ma a questo punto anche per i fatti ad esso successivi, i criteri interpretativi elaborati dalle Sezioni Unite con la citata sentenza n. 24782 del 2018, secondo cui, in tema di omesso versamento di ritenute certificate, ai fini della prova del rilascio al sostituito delle certificazioni attestanti le ritenute operate, non è sufficiente la sola acquisizione della dichiarazione modello 770, dovendosi cioè comprovare aliunde il rilascio delle predette certificazioni, nel solco delle indicazioni ermeneutiche fornite dalla pronuncia delle Sezioni Unite, oltre che dalla giurisprudenza ad essa successiva (cfr. Sez. 3, n. 13610 del 14/02/2019, Rv. 275901-02 e Sez. 3, n. 25987 del 13/07/2020, Rv. 279743).

È quanto stabilito dalla sentenza della S.C., sezione III penale, n. 43238/2022 (scarica qui il testo integrale e la nostra newsletter sul punto).

231, principi in tema di messa alla prova e nomina del difensore

Interessanti pronunce della S.C. di Cassazione in materia di responsabilità degli enti ex d.lgs. 231/2001.

Anzitutto, in tema di messa alla prova, all’udienza del 27 ottobre 2022, le Sezioni Unite Penali hanno enunciato il seguente principio di diritto: “L’istituto dell’ammissione alla prova (art. 168-bis c.p.) non trova applicazione con riferimento agli enti di cui al d. lgs. n. 231 del 2001”.

Scarica qui l’informativa provvisoria della Suprema Corte.

La pronuncia  risulta regolare in senso contrario alcune decisioni precedenti, già oggetto di commento con nostro post del 28.7.2022 (ad es. Tribunale di Bari del 22.6.2022).

La seconda pronuncia è la n. 35387/2022 della Sezione II penale che ha stabilito come la nomina del difensore dell’ente indagato/imputato ai sensi del d.lgs 231/2001 non possa essere rilasciata dal legale rappresentante dell’ente che pure sia indagato/imputato nel medesimo procedimento e ciò anche laddove sia stata rilasciata  in situazione di urgenza.

Afferma infatti la Corte che “è inammissibile, per difetto di legittimazione rilevabile di ufficio ai sensi dell’art. 591, comma primo, lett. a), cod. proc. pen., la richiesta di riesame di decreto di sequestro preventivo presentata dal difensore dell’ente nominato dal rappresentante che sia imputato o indagato per il reato da cui dipende l’illecito amministrativo (…) il divieto di rappresentanza stabilito dall’art. 39 d.lgs n. 231 del 2001 è funzionale ad assicurare la piena garanzia del diritto di difesa al soggetto collettivo; d’altra parte, tale diritto risulterebbe del tutto compromesso se l’ente partecipasse al procedimento attraverso la rappresentanza di un soggetto portatore di interessi confliggenti da un punto di vista sostanziale e processuale”.

Continua la S.C. affermando che il sistema della responsabilità amministrativa degli enti è volto proprio a sollecitare le persone giuridiche all’adozione di modelli organizzativi al fine di prevenire i reati rispetto ai quali possa sorgere la loro responsabilità amministrativa, strutturando la propria organizzazione in modo da adeguare l’intervento nel caso in cui dalla propria attività possa conseguire un’indagine penale.

La Cassazione ritiene pertanto che un modello organizzativo adeguato deve considerare l’ipotesi – ovviamente da scongiurare in forza della predisposizione delle altre regole cautelari autoprodotte nel modello stesso – in cui il legale rappresentante sia ad essere indagato per un reato presupposto all’illecito amministrativo ascritto a carico dell’ente, e si trovi quindi in una situazione di conflitto con gli interessi dell’ente, in maniera  tale che l’ente possa provvedere a tutelare i propri diritti di difesa provvedendo alla nomina di un difensore da parte di un soggetto specificamente delegato a tale incombente per i casi di eventuale conflitto con le indagini penali a carico del rappresentante legale.

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