Daspo anche se l’invasione è per chiedere la maglia dei giocatori

Il Comma 2 dell’art. 6bis della Legge 401/1989 stabilisce che “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, nei luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive, supera indebitamente una recinzione o separazione dell’impianto ovvero, nel corso delle manifestazioni medesime, invade il terreno di gioco, è punito con l’arresto fino ad un anno e con l’ammenda da 1.000 euro a 5.000 euro. La pena è della reclusione da sei mesi a quattro anni se dal fatto deriva un ritardo rilevante dell’inizio, l’interruzione o la sospensione definitiva della competizione calcistica”.

Tale violazione figura tra quelle che consentono ai sensi dell’art. 6 della medesima legge, il divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive specificamente indicate, nonché a quelli, specificamente indicati, interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano o assistono alle manifestazioni medesime (c.d. Daspo).

Secondo la sentenza 16136/2023 della III sezione penale della S.C. di Cassazione è legittimo il Daspo adottato nei confronti di tifosi che abbiano scavalcato la recinzione per entrare nel campo dietro alla porta di gioco, anche subito dopo il fischio di chiusura della partita da parte del direttore di gara, siccome anche in tale fase della manifestazione sportiva è vietato l’ingresso ai non addetti nell’area di gioco (Sez. 3, n. 47258 del 19/06/2014, Licari, Rv. 260738-01 e Sez. 6, n. 52172 del 27/09/2017, Rv. 271956-01).

Secondo la S.C., infatti, non rilevano poi i motivi della condotta, tra cui il desiderio di avvicinare i giocatori per ottenere la maglietta a fine partita, perché l’art. 6-bis I. n. 401 del 1989 non ammette esclusioni rispetto al divieto di “indebito superamento della recinzione”.

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Whistleblowing, pubblicato il d.lgs. 24 del 16.3.2023

È stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il d.lgs. n. 24 del 10 marzo 2023 che entrerà in vigore il 15 luglio 2023 (è prevista una proroga al 17 dicembre 2023 per i datori di lavoro privati che nell’ultimo anno abbiamo impiegato una media di 249 lavoratori subordinati, a tempo determinato o indeterminato).

La normativa è applicabile a tutti i soggetti, pubblici e privati, indipendentemente dall’adozione di un modello organizzativo ex d.lgs 231/2001 per la prevenzione di reati in azienda.

I canali di segnalazione possono essere tre, interno, esterno e pubblico, ma negli enti privati con meno di cinquanta dipendenti è prevista la sola possibilità della segnalazione interna. Dunque, dovranno obbligatoriamente attivare il canale di segnalazione interno i soggetti privati che:

  • abbiano impiegato in media nell’ultimo anno almeno 50 lavoratori subordinati con contratti di lavoro a tempo indeterminato o determinato;
  • rientrino nell’ambito di applicazione delle norme in materia di servizi, prodotti e mercati finanziari e prevenzione del riciclaggio o del finanziamento del terrorismo, sicurezza dei trasporti e tutela dell’ambiente, anche se nell’ultimo anno non hanno raggiunto la media di 50 lavoratori subordinati;
  • abbiano adottato modelli di organizzazione e gestione ex D.lgs. 231/2001, anche se nell’ultimo anno non hanno raggiunto la media di 50 lavoratori subordinati.

Le segnalazioni potranno essere effettuate con quattro modalità:

  • In forma scritta;
  • In forma orale, con un incontro di persona con personale addetto;
  • Tramite linee telefoniche o altri sistemi di messaggistica vocale registrati o non registrati (in questo ultimo caso le conversazioni dovranno essere trascritte e firmate);
  • Attraverso la piattaforma informatica messa a disposizione da Anac (Autorità Nazionale Anti Corruzione) per la segnalazione esterna;

Tutti coloro che effettuano segnalazioni di violazioni del diritto dell’Unione da parte dell’ente di appartenenza, nell’ambito della propria attività, che siano dipendenti o collaboratori, lavoratori autonomi o subordinati, liberi professionisti, volontari, tirocinanti (anche non retribuiti), gli azionisti, gli amministratori, direttori e coloro che operano con funzioni di vigilanza, controllo e rappresentanza, hanno diritto alle tutele previste dal decreto.

Ai sensi dell’art. 17 del decreto, infatti, nessuno può subire, per il fatto di aver segnalato un illecito, ritorsioni di alcun tipo, tra cui:

  • licenziamento, sospensione;
  • retrocessione di grado o mancata promozione;
  • mutamento di funzioni, cambiamento del luogo di lavoro, riduzione dello stipendio, modifica dell’orario di lavoro;
  • sospensione della formazione;
  • note di merito negative;
  • adozione di misure disciplinari o di altra sanzione anche pecuniaria;
  • coercizione, intimidazione, molestie o ostracismo;
  • discriminazione o comunque trattamento sfavorevole;
  • mancata conversione di un contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, laddove il lavoratore avesse una legittima aspettativa a detta conversione;
  • mancato rinnovo o risoluzione anticipata di un contratto di lavoro a termine;
  • danni, anche alla reputazione della persona, in particolare sui social media, o pregiudizi economici o finanziari, comprese la perdita di opportunità economiche e la perdita di redditi;
  • annullamento di una licenza o di un permesso;
  • richiesta di sottoposizione ad accertamenti psichiatrici o medici.

La protezione dei whistleblowers prevede tra l’altro il divieto di rivelarne l’identità senza il suo consenso a persone diverse da quelle competenti a ricevere o a dare seguito alle segnalazioni ed anche nell’ambito di procedimenti disciplinari a carico del segnalato.

Se il segnalatore subisce una ritorsione o in altri casi di violazione della normativa, l’Anac potrà applicare sanzioni amministrative pecuniarie da 10.000,00 a 50.000,00 euro; si applicherà la sanzione anche nei casi in cui venga accertato che una segnalazione è stata ostacolata o che si è tentato di ostacolarla o che è stato violato l’obbligo di riservatezza, oppure se l’Autorità accerti che non sono stati istituiti canali di segnalazione e che non sono state adottate procedure per l’effettuazione e la gestione delle segnalazioni. Infine, qualora si accerti la responsabilità del segnalante per i reati di diffamazione e calunnia, è prevista la sanzione da 500,00 a 2.500,00 euro.

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Calunnia verso i colleghi: legittimo il licenziamento senza preavviso

Calunnia di Botticelli licenziamentoLa S.C. di Cassazione, sezione lavoro, con ordinanza 7225 del 13.3.2023 si è pronunciata in una fattispecie relativa a un dipendente di Polizia Locale nei confronti del quale era stata irrogata la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio per sei giorni, in ragione della violazione dell’art. 3, co. 4 lett. b) e comma 5 lett. b), g) ed i) del CCNL Comparto Regioni ed Autonomie Locali, per avere lo stesso denigrato il Comandante del Corpo, attribuendogli un comportamento scorretto ed irrispettoso ed il Corpo stesso, esprimendo su di esso un giudizio negativo e tale da far desumere lo svolgimento al suo/interno di attività illecite, oltre che per avere gravemente diffamato un collega, attribuendogli comportamenti sessualmente molesti ed osceni ed avere tenuto un comportamento scorretto nei riguardi di altro superiore.

La S.C. ha sancito la legittimità del licenziamento senza preavviso adottato dalla pubblica amministrazione.

Sussistono secondo la Corte, in una condotta come quella sopra descritta, tutti gli elementi di fatto della fattispecie di cui all’articolo 55 quater lettera e) del decreto legislativo: risultano reiterate le condotte che ledono la dignità personale altrui, laddove la calunnia nei confronti del comandante e dei colleghi risulta accertata in sede penale con sentenza passata in giudicato.

Ad avviso della Suprema Corte si tratta di condotte gravi in quanto la denigrazione colpisce il Corpo di polizia, dunque l’istituzione di appartenenza.

Non assume rilievo la circostanza che la querela rivelatasi calunniosa, sia un atto esterno all’ambiente di lavoro: è invece sufficiente che l’atto illecito abbia conseguenze dirette all’interno della sfera anche se non risulta commesso nel luogo dove si svolge il servizio.

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Utilizzo indebito di carta di credito altrui: non occorre il profitto

carta di credito utilizzo indebitoL’art. 493-ter c.p. che punisce il reato di “Indebito utilizzo e falsificazione di strumenti di pagamento diversi dai contanti”, stabilisce che “Chiunque al fine di trarne profitto per sé o per altri, indebitamente utilizza, non essendone titolare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, o comunque ogni altro strumento di pagamento diverso dai contanti è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 310 euro a 1.550 euro. Alla stessa pena soggiace chi, al fine di trarne profitto per sé o per altri, falsifica o altera gli strumenti o i documenti di cui al primo periodo, ovvero possiede, cede o acquisisce tali strumenti o documenti di provenienza illecita o comunque falsificati o alterati, nonché ordini di pagamento prodotti con essi”.

La recente sentenza 4342/2023 del 1.2.2023 della Sezione V penale della S.C. di Cassazione sottolinea come tale reato venga punito a prescindere dal conseguimento di un profitto e di un altrui danno, essendo sufficiente, ai fini della configurabilità del reato, il fine di profitto e non il suo effettivo conseguimento.

Secondo la Corte che, deve ritenersi escluso che l’assenza di profitto elida il delitto previsto dall’art. 493-ter c.p.

L’indebita utilizzazione, a fini di profitto, di una carta di credito da parte di chi non ne sia titolare, integra il delitto di cui si discute indipendentemente dall’effettivo conseguimento di un profitto o dal verificarsi di un danno, non essendo richiesto dalla norma che la transazione giunga a buon fine (Sez. 5, n. 5692 del 11/12/2018, dep. 2019, S., Rv. 275109 – 01: fattispecie nella quale l’imputato aveva introdotto la carta di credito di provenienza illecita nello sportello bancomat, senza digitare il PIN di cui non era a conoscenza) o che intervenga il prelievo di denaro (Sez. 5, n. 17923 del 12/01/2018, Pasquale, Rv. 273033 – 01) o che la carta sia stata bloccata (Sez. 2, n. 45901 del 15/11/2012, Tracogna, Rv. 254358 – 01; massime conformi: n. 16572 del 2006 rv. 234460 – 01, n. 37016 del 2011 rv. 251155 – 01).

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TSO: le 3 condizioni

Interessante pronuncia della S.C. in tema di condizioni per poter disporre un TSO.

Il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), come noto, è un istituto che consente di sottoporre una persona a cure mediche contro la sua volontà.

Esso è disciplinato dalla Legge 833/78 agli artt. 33 e ss.

L’art. 33 citato in particolare sancisce che “gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari” e “Nei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall’autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, secondo l’articolo 32 della Costituzione, nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del  luogo di cura. Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento del sindaco nella sua qualità di autorità sanitaria, su proposta motivata di un medico. Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori sono attuati dai presidi e servizi sanitari pubblici territoriali e, ove necessiti la degenza, nelle strutture ospedaliere pubbliche o convenzionate”.

Il TSO può essere adottato in presenza di alterazioni psichiche per le quali il paziente rifiuti le cure e di condizioni e circostanze che rendono impossibile adottare tempestivamente misure diverse da quelle ospedaliere

La recente ordinanza 509/2023 della S.C. di Cassazione sezione III civile dell’11.1.2023 ricorda che “Il Trattamento Sanitario Obbligatorio per malattia mentale prevede che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solamente se sono contemporaneamente presenti tre condizioni:

  1. l’esistenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici;
  2. la mancata accettazione da parte dell’infermo degli interventi di cui sopra;
  3. l’esistenza di condizioni e circostanze che non consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra-ospedaliere”.

Prosegue la S.C. ricordando altresì che il Trattamento Sanitario Obbligatorio è, pertanto, un evento straordinario – finalizzato alla tutela della salute mentale del paziente – che non deve essere considerate una misura di difesa sociale, che deve essere attivato solo dopo aver ricercato, con ogni iniziativa possibile, il consenso del paziente ad un intervento volontario, e che richiede una specifica procedura, attivata da parte di un medico che verifica e certifica l’esistenza:

  • dell’avvenuta convalida della proposta da parte di un altro medico, dipendente pubblico, generalmente specialista in psichiatria;
  • dell’emanazione da parte del Sindaco dell’ordinanza esecutiva (entro 48 ore);
  • della notifica al Giudice Tutelare (entro 48 ore), che provvede a convalidare o meno il provvedimento, comunicandolo al Sindaco.

La durata del provvedimento è di 7 giorni, con possibilità di proroga se persistono le tre condizioni necessarie (da comunicare al Sindaco ed al Giudice Tutelare) o di cessazione se anche solo una delle condizioni viene meno (da comunicare al Sindaco ed al Giudice Tutelare).

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