TSO: le 3 condizioni

Interessante pronuncia della S.C. in tema di condizioni per poter disporre un TSO.

Il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), come noto, è un istituto che consente di sottoporre una persona a cure mediche contro la sua volontà.

Esso è disciplinato dalla Legge 833/78 agli artt. 33 e ss.

L’art. 33 citato in particolare sancisce che “gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari” e “Nei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall’autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, secondo l’articolo 32 della Costituzione, nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del  luogo di cura. Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento del sindaco nella sua qualità di autorità sanitaria, su proposta motivata di un medico. Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori sono attuati dai presidi e servizi sanitari pubblici territoriali e, ove necessiti la degenza, nelle strutture ospedaliere pubbliche o convenzionate”.

Il TSO può essere adottato in presenza di alterazioni psichiche per le quali il paziente rifiuti le cure e di condizioni e circostanze che rendono impossibile adottare tempestivamente misure diverse da quelle ospedaliere

La recente ordinanza 509/2023 della S.C. di Cassazione sezione III civile dell’11.1.2023 ricorda che “Il Trattamento Sanitario Obbligatorio per malattia mentale prevede che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solamente se sono contemporaneamente presenti tre condizioni:

  1. l’esistenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici;
  2. la mancata accettazione da parte dell’infermo degli interventi di cui sopra;
  3. l’esistenza di condizioni e circostanze che non consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra-ospedaliere”.

Prosegue la S.C. ricordando altresì che il Trattamento Sanitario Obbligatorio è, pertanto, un evento straordinario – finalizzato alla tutela della salute mentale del paziente – che non deve essere considerate una misura di difesa sociale, che deve essere attivato solo dopo aver ricercato, con ogni iniziativa possibile, il consenso del paziente ad un intervento volontario, e che richiede una specifica procedura, attivata da parte di un medico che verifica e certifica l’esistenza:

  • dell’avvenuta convalida della proposta da parte di un altro medico, dipendente pubblico, generalmente specialista in psichiatria;
  • dell’emanazione da parte del Sindaco dell’ordinanza esecutiva (entro 48 ore);
  • della notifica al Giudice Tutelare (entro 48 ore), che provvede a convalidare o meno il provvedimento, comunicandolo al Sindaco.

La durata del provvedimento è di 7 giorni, con possibilità di proroga se persistono le tre condizioni necessarie (da comunicare al Sindaco ed al Giudice Tutelare) o di cessazione se anche solo una delle condizioni viene meno (da comunicare al Sindaco ed al Giudice Tutelare).

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Ritenute non versate, per il reato serve la certificazione

modello770Per il reato di omesso versamento della ritenute occorre dimostrare l’avvenuta certificazione, non essendo sufficiente solo il modello 770.

L’art. 10bis del d.lgs 74/2000, introdotto con la legge finanziaria 30.12.2004 n. 311 dal titolo «omesso versamento di ritenute certificate», sanzionava l’omesso versamento, unicamente ove riguardante «ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti», per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo di imposta.

Tale norma è stata modificata dal governo, sulla base di legge delega, con l’art. 7 del d. Igs. 24 settembre 2015 n. 158, venendo per effetto di tale riforma punito «chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a centocinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta».

A parte l’innalzamento della soglia della rilevanza penale, l’elemento differenziale nelle due versioni della norma consisteva nel fatto che, mentre in quella ante 2015 si faceva riferimento alle sole «ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti» (quindi il CUD o CU), dal 2015 la norma opera anche, ed alternativamente, il riferimento alle «ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione» (cioè quella annuale del sostituto, e, quindi, il mod. 770).

La revisione della norma risultava ben evidenziata nella integrazione della rubrica dell’articolo (passata da «omesso versamento di ritenute certificate» a «omesso versamento di ritenute dovute o certificate») e nella apposizione, accanto al periodo «risultanti dalla certificazione rilasciata», del periodo «dovute sulla base della stessa dichiarazione».

L’oggetto materiale della condotta omissiva sanzionata, dapprima limitata alle sole ritenute che risultavano dalla certificazione, è stata quindi estesa alle ritenute emergenti dalla dichiarazione modello 770, per cui, alla luce di tale modifica, si è posto nella giurisprudenza di legittimità il quesito sulla sufficienza, per i soli fatti precedenti alla novella del 2015, della dichiarazione modello 770 del sostituto a dimostrare l’avvenuto rilascio ai sostituiti delle certificazioni, ciò a fronte della necessità di considerare tale rilascio, se non quale elemento costitutivo del reato, quanto meno di suo presupposto.

Nel 2018 le Sezioni Unite con sentenza 24782/2018 (scarica qui) hanno stabilito con riferimento alla normativa previgente alla modifica intervenuta nell’anno 2015, deve essere esclusa la idoneità del solo modello 770 (di dichiarazione delle erogazioni effettuate e delle ritenute operate), a provare l’elemento, da considerare presupposto del reato, del rilascio delle certificazioni, ciò in base al rilievo secondo cui le indicazioni contenute nel modello 770 non sono da sole idonee a provare il fatto del rilascio delle certificazioni, essendo un mero indizio che, non può superare il criterio dell’accertamento al di là di ogni ragionevole dubbio cristallizzato dall’art. 533 cod. proc. pen., gravando dunque sul pubblico ministero l’onere di ricercare, al fine del raggiungimento della prova richiesta ai fini della configurabilità della fattispecie, elementi ulteriori e diversi (orali, come ad esempio le dichiarazioni dei sostituiti, o documentali) rispetto alla sola dichiarazione modello 770.

La sentenza della Corte Costituzionale 175/2022 (scarica qui) ha poi dichiarato incostituzionale, sul presupposto dell’eccesso di delega, sia dell’art. 7, comma 1, lettera b) del decreto legislativo n. 158 del 2015 (“Revisione del sistema sanzionatorio in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014 n. 23”), nella parte in cui ha inserito le parole “dovute sulla base della stessa dichiarazione o” nel testo dell’art. 10 bis del decreto legislativo 10 marzo 2000 n. 74, sia dello stesso art. 10 bis del d. Igs. n. 74 del 2000, limitatamente alle parole “dovute sulla base della stessa dichiarazione o”.

In sostanza, secondo la Consulta, il legislatore delegato del 2015 ha introdotto illegittimamente nell’art. 10 bis una nuova fattispecie penale (omesso versamento di ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione del sostituto), affiancandola a quella già esistente (omesso versamento di ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti), senza essere in ciò autorizzato a farlo dalla legge di delega, mentre sarebbe stato necessario un criterio preciso e definito per poter essere rispettoso anche del principio di stretta legalità in materia penale.

Di qui la declaratoria di incostituzionalità nei termini descritti, che ha sostanzialmente “sterilizzato” la modifica della norma incriminatrice introdotta con il d. Igs. n. 158 del 2015 che, oltre a innalzare la soglia di punibilità da euro 50.000 a euro 150.000, aveva previsto la possibilità di ricavare la prova dell’avvenuta consumazione del reato anche sulla base di quanto risultasse dalla mera dichiarazione del sostituto d’imposta (c.d. modello 770), per cui ora l’integrazione della fattispecie penale ex art. 10 bis richiede che il mancato versamento da parte del sostituto, per un importo superiore alla soglia di punibilità, riguardi le ritenute certificate, mentre il mancato versamento delle ritenute risultanti dalla dichiarazione, ma di cui non c’è prova del rilascio delle relative certificazioni ai sostituiti, costituisce illecito amministrativo tributario.

Tornano quindi attuali, non più solo per i fatti pregressi al d. Igs. n. 158 del 2015, ma a questo punto anche per i fatti ad esso successivi, i criteri interpretativi elaborati dalle Sezioni Unite con la citata sentenza n. 24782 del 2018, secondo cui, in tema di omesso versamento di ritenute certificate, ai fini della prova del rilascio al sostituito delle certificazioni attestanti le ritenute operate, non è sufficiente la sola acquisizione della dichiarazione modello 770, dovendosi cioè comprovare aliunde il rilascio delle predette certificazioni, nel solco delle indicazioni ermeneutiche fornite dalla pronuncia delle Sezioni Unite, oltre che dalla giurisprudenza ad essa successiva (cfr. Sez. 3, n. 13610 del 14/02/2019, Rv. 275901-02 e Sez. 3, n. 25987 del 13/07/2020, Rv. 279743).

È quanto stabilito dalla sentenza della S.C., sezione III penale, n. 43238/2022 (scarica qui il testo integrale e la nostra newsletter sul punto).

231, principi in tema di messa alla prova e nomina del difensore

Interessanti pronunce della S.C. di Cassazione in materia di responsabilità degli enti ex d.lgs. 231/2001.

Anzitutto, in tema di messa alla prova, all’udienza del 27 ottobre 2022, le Sezioni Unite Penali hanno enunciato il seguente principio di diritto: “L’istituto dell’ammissione alla prova (art. 168-bis c.p.) non trova applicazione con riferimento agli enti di cui al d. lgs. n. 231 del 2001”.

Scarica qui l’informativa provvisoria della Suprema Corte.

La pronuncia  risulta regolare in senso contrario alcune decisioni precedenti, già oggetto di commento con nostro post del 28.7.2022 (ad es. Tribunale di Bari del 22.6.2022).

La seconda pronuncia è la n. 35387/2022 della Sezione II penale che ha stabilito come la nomina del difensore dell’ente indagato/imputato ai sensi del d.lgs 231/2001 non possa essere rilasciata dal legale rappresentante dell’ente che pure sia indagato/imputato nel medesimo procedimento e ciò anche laddove sia stata rilasciata  in situazione di urgenza.

Afferma infatti la Corte che “è inammissibile, per difetto di legittimazione rilevabile di ufficio ai sensi dell’art. 591, comma primo, lett. a), cod. proc. pen., la richiesta di riesame di decreto di sequestro preventivo presentata dal difensore dell’ente nominato dal rappresentante che sia imputato o indagato per il reato da cui dipende l’illecito amministrativo (…) il divieto di rappresentanza stabilito dall’art. 39 d.lgs n. 231 del 2001 è funzionale ad assicurare la piena garanzia del diritto di difesa al soggetto collettivo; d’altra parte, tale diritto risulterebbe del tutto compromesso se l’ente partecipasse al procedimento attraverso la rappresentanza di un soggetto portatore di interessi confliggenti da un punto di vista sostanziale e processuale”.

Continua la S.C. affermando che il sistema della responsabilità amministrativa degli enti è volto proprio a sollecitare le persone giuridiche all’adozione di modelli organizzativi al fine di prevenire i reati rispetto ai quali possa sorgere la loro responsabilità amministrativa, strutturando la propria organizzazione in modo da adeguare l’intervento nel caso in cui dalla propria attività possa conseguire un’indagine penale.

La Cassazione ritiene pertanto che un modello organizzativo adeguato deve considerare l’ipotesi – ovviamente da scongiurare in forza della predisposizione delle altre regole cautelari autoprodotte nel modello stesso – in cui il legale rappresentante sia ad essere indagato per un reato presupposto all’illecito amministrativo ascritto a carico dell’ente, e si trovi quindi in una situazione di conflitto con gli interessi dell’ente, in maniera  tale che l’ente possa provvedere a tutelare i propri diritti di difesa provvedendo alla nomina di un difensore da parte di un soggetto specificamente delegato a tale incombente per i casi di eventuale conflitto con le indagini penali a carico del rappresentante legale.

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Offesa sui social: ingiuria o diffamazione?

Costituisce ingiuria e non diffamazione l’offesa a un partecipante della chat di un social network.

E’ quanto stabilito dalla S.C. di Cassazione Sezione V penale con sentenza n. 36193/2022.

Il tema era già stato oggetto di una recente pronunzia della Corte, che aveva ritenuto l’invio di una “e-mail”, dal contenuto offensivo, ad una pluralità di destinatari integrare il reato di diffamazione anche nell’eventualità che tra questi vi sia l’offeso, stante la non contestualità del recepimento del messaggio nelle caselle di posta elettronica di destinazione. (Sez. 5 , Sentenza n. 13252 del 04/03/2021 Ud. (dep. 08/04/2021 ) Rv. 280814.

Nella motivazione di tale sentenza veniva effettuata un lettura comparativa delle norme ex art 594 c.p. (ingiuria, depenalizzata) e 595 c.p. (diffamazione, penalmente rilevante), puntualizzandosi che l’offesa diretta a una persona presente costituisce sempre ingiuria, anche se sono presenti altre persone; l’offesa diretta a una persona “distante” costituisce ingiuria solo quando la comunicazione offensiva avviene, esclusivamente, tra autore e destinatario; se la comunicazione “a distanza” è indirizzata ad altre persone oltre all’offeso, si configura il reato di diffamazione; l’offesa riguardante un assente e comunicata ad almeno due persone (presenti o distanti), integra sempre la diffamazione.

Il criterio discretivo tra il fatto illecito di ingiuria e la diffamazione sanzionata penalmente ex art 595 c.p. è stato individuato nella presenza o meno dell’offeso tra i destinatari delle comunicazioni offensive.

Si è, infatti, chiarito che è la nozione di «presenza» dell’offeso ad assurgere a criterio distintivo, implicando questa necessariamente la presenza fisica, in unità di tempo e di luogo, di offeso e terzi, ovvero una situazione ad essa sostanzialmente equiparabile, realizzata con l’ausilio dei moderni sistemi tecnologici.

Nell’interpretazione adeguatrice della norma ex art 595 c.p. ai mezzi di comunicazione telematici ed informatici si è chiarito che i numerosi applicativi attualmente in uso per la comunicazione tra persone fisicamente distanti non modificano, nella sostanza, la linea di discrimine tra le due figure come sopra tracciata, dovendo porsi solo una particolare attenzione alle caratteristiche specifiche del programma e alle funzioni utilizzate nel caso concreto, restando fermo il criterio discretivo della “presenza”, anche se “virtuale”, dell’offeso tra i soggetti destinatari ; occorre, dunque, ricostruire sempre l’accaduto, caso per caso.

Così se l’offesa è profferita nel corso di una riunione “a distanza”, o “da remoto”, tra più persone contestualmente collegate, tra le quali anche l’offeso, ricorrerà l’ipotesi della ingiuria commessa alla presenza di più persone, fatto depenalizzato. In tal senso Sez. 5, n. 10905 del 25/02/2020, Sala, Rv. 278742, che ha qualificato come ingiuria l’offesa pronunciata nel corso di un incontro tra più persone, compreso l’offeso, presenti contestualmente, anche se virtualmente, sulla piattaforma Google Hangouts.

Di contro, quando vengano in rilievo comunicazioni scritte o vocali, indirizzate all’offeso e ad altre persone non contestualmente “presenti”, secondo l’accezione estesa alla presenza “virtuale” o “da remoto, ricorreranno i presupposti della diffamazione.

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La clausola “ex works” non espressamente accettata non deroga la giurisdizione

In tema di vendita internazionale a distanza di beni mobili, la controversia avente ad oggetto il pagamento della merce va devoluta, ai sensi dell’art. 4 del Reg. UE n. 1215 del 2012 (applicabile “ratione temporis”), alla giurisdizione dell’A.G. del luogo della consegna materiale dei beni, non ostando a tale conclusione l’inserimento, nel contratto medesimo, di una clausola “ex works”, se essa non sia accompagnata da una specifica pattuizione volta ad attribuire, con chiarezza, al luogo del passaggio del rischio valenza anche di luogo di consegna della merce.

E’ quanto statuito dalle Sezioni Unite Civili della S.C. di Cassazione con ordinanza 20633/2022 che hanno ritenuto non chiara ed univoca la volontà delle parti espressa in una clausola “ex work” finalizzata a disciplinare il passaggio dei rischi e dei costi del trasporto successivo in capo all’acquirente.

Secondo l’univoca giurisprudenza della Corte di Giustizia della UE (evocata anche in ricorso, con riferimento alla sentenza del 25 febbraio 2010, Car Trim, C-381/08 e alla sentenza 9 giugno 2011, Electrosteel Europe SA c. Edil Centro s.p.a., C-87/10), al fine di verificare se il luogo di consegna sia determinato “in base al contratto”, il giudice nazionale adito deve tenere conto di tutti i termini e di tutte le clausole rilevanti del contratto stesso che siano idonei ad identificare con certezza tale luogo, ivi compresi i termini e le clausole generalmente riconosciuti e sanciti dagli usi del commercio internazionale.

E’ quindi necessario verificare se possa essere rinvenibile, dal contenuto complessivo del contratto commerciale intercorso tra le parti, una pattuizione idonea all’univoca individuazione del luogo di consegna, altrimenti operando – in difetto, per l’appunto, di una diversa convenzione – il criterio attributivo della giurisdizione – di cui all’art. 7, punto 1, lett. b), del Reg. UE n. 1215/2012 – in capo al giudice del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio, conformemente alla previsione del foro generale del convenuto individuata nell’art. 4 dello stesso Regolamento UE.

L’univoco orientamento della giurisprudenza delle Sezioni Unite (v. ord. SU n. 24279/2014; ord. SU n. 32362/2018; sent. SU n. 17566/2019 e, da ultimo, sent. SU n. 15891/2022) aveva ritenuto che il riferimento alla dicitura (c.d. “incoterm”) “ex works” unilateralmente inserita nelle fatture (come è noto costituenti documenti di formazione e provenienza unilaterali) emesse per il pagamento di una fornitura commerciale non può valere, di per sé, come derogativa del criterio di attribuzione giurisdizionale generale, in mancanza di un’espressa e chiara accettazione della clausola e, quindi, della formazione di un univoco accordo contrattuale sul punto, che deve risultare desumibile inequivocamente.

Del resto, l’inserimento della citata clausola “ex work è, invero, finalizzato, di regola, a disciplinare l’aspetto del passaggio dei rischi e dei costi del trasporto successivo in capo all’acquirente ma non ad incidere sulla determinazione dell’attribuzione della giurisdizione.

Se dunque difetti la prova univoca dell’esistenza di un accordo tra le parti circa il luogo di consegna della merce, deve trovare applicazione il criterio generale che individua tale luogo in quello in cui l’acquirente avrebbe conseguito “il potere di disporre effettivamente dei beni alla destinazione finale dell’operazione di vendita” e, quindi, nel luogo di consegna.

Oltretutto, affermano le SS.UU., il criterio del luogo della consegna materiale della merce oggetto del contratto rappresenta il criterio da preferire perché presenta un alto grado di prevedibilità e risponde ad un obiettivo di prossimità, in quanto garantisce l’esistenza di una stretta correlazione tra il contratto e il giudice chiamato a conoscerne, e ciò in quanto, in linea di principio, i beni che costituiscono l’oggetto del contratto devono trovarsi in tale luogo dopo l’esecuzione di tale contratto (a questo inquadramento è, del resto, ispirato anche il paragrafo 15 delle premesse del citato Reg. UE n. 1215/2012); né va trascurato il rilievo per cui l’obiettivo fondamentale di un contratto di compravendita di beni è il trasferimento degli stessi dal venditore all’acquirente, operazione che si conclude soltanto quando detti beni giungono alla loro destinazione finale (così la citata sent. della Corte Giust. 25 febbraio 2010, in causa C-381/08), non potendosi in senso contrario ricorrere all’applicazione, come criterio generale ai fini della individuazione del giudice munito di giurisdizione, del criterio di diritto sostanziale che determina il trasferimento del rischio e\o la liberazione del venditore con la consegna dei beni compravenduti al vettore incaricato, in quanto lo stesso non garantisce in pari modo le esigenze di semplificazione, uniformità e prevedibilità delle decisioni.

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